Come ho scritto altre volte, nei ricordi dei racconti dell'infanzia non ci sono Cappuccetto Rosso o la Bella Addormentata, ma le gesta eroiche, così le definiva mia madre, degli oppositori al fascismo.
Il nostro è stato un borgo minerario, semmai un giorno ci furono case coloniche con l'aia e gli animali da cortile, dal mille ottocentocinquanta in poi l'aria che si respirava si era mischiata alle poveri sottili della blenda e della galena che si estraevano dalle miniere di Montevecchio. E le lotte operaie, anche durante gli anni del fascismo, qui più che altrove nel nostro aspro territorio, hanno influenzato non poco l'opposizione al fascismo.
Proprio la presenza delle Miniere per quasi duecento anni, chiuse definitivamente intorno agli anni novanta del secolo scorso, ha fino all'ultimo alimentato le lotte operaie. Dopo di allora è iniziato un declino inarrestabile che come il lettore immagina ha raggiunto feroci picchi in quest'ultimo periodo. In ogni famiglia, qui e nel circondario, è presente una storia di miniera, uomini, donne e bambini non faceva nessuna differenza: in Miniera ci lavorava tutta la famiglia, almeno fino ai primi anni del novecento.
La Festa del lavoro, che in Italia risale al 1890, per gli operai e le operaie di miniera diventò da subito la speranza tangibile del miglioramento delle condizioni disumane di lavoro, il segno delle lotte.
Ma negli anni del fascismo i festeggiamenti per il Primo Maggio erano vietati, in queste zone come in tutta Italia, la mano del regime esercitava un controllo ferreo impedendo qualsiasi manifestazione pubblica.
La festa del Primo Maggio per tutto il ventennio venne spostata al 21 Aprile giorno dei Natali di Roma. Se l'attività pubblica era proibita non si poteva certo proibire quella clandestina, non si può vietare né per legge, né con la forza, la speranza. Fu così che nel mio paese il regime venne sfidato proprio il Primo Maggio nel 1937. Allora mia madre aveva meno di un anno e mezzo e questa impresa, che è rimasta nella memoria collettiva, la sentì raccontare da sua madre e poi l'ha raccontata a noi.
E ogni volta che ne parliamo, perché ancora capita che ricordiamo quei tempi terribili, io mi immagino così quel che accadde tra la notte del 30 aprile e il Primo maggio del 1937.
I passi echeggiavano nella notte buia, il rumore delle suole sembrava amplificarsi, ingigantito dalla paura nei vicoli e nelle strade strette, sicuramente avrebbe svegliato l'intero paese ancor prima di iniziare la spedizione. Con la bandiera celata tra gli indumenti, si ritrovarono, muti e risoluti ai piedi dell'aspro Monte Santa Margherita, seicento metri di altezza, di rocce basaltiche e graniti e una vegetazione ormai rada perchè il freddo e il bisogno di scaldarsi era più forte di tutto.
Ai piedi del monte si adagiava il paese, fatto di case in mattoni crudi e definitivamente intrappolato nell'attività mineraria. Intrappolato nel medioevo delle viuzze strette, della mancanza di fognature e acqua potabile nelle case, negli animali allevati in cortile assieme ai bambini, di poverissimi alla continua e disperata ricerca di legna e di qualsiasi cosa nelle campagne fosse commestibile. In tanti erano senza lavoro, non perchè mancasse, ma perchè a lavoro occorreva indossare la camicia nera e non a tutti piaceva il colore dei funerali. In tanti facevano la fame perchè anche se si lavorava, una famiglia non ci campava comunque.
L'idea era maturata lentamente: sfidare il locale segretario politico del fascismo e rendere visibile per qualche minuto, portare il segno della festa del lavoro, la bandiera rossa, ricordare a tutti che gli ideali dei lavoratori erano vivi e pulsanti oltre la cortina nera della repressione.
Salirono nel silenzio della tiepida notte che segna il passaggio da aprile a maggio, incuranti dei rovi e dell'asperità del terreno, accompagnati dalla flebile luce della luna complice inconsapevole. Pian piano arrivarono alla meta e issata la bandiera su un ramo tornarono indietro, silenziosamente come erano arrivati, si divisero giungendo al riparo delle mura domestiche.
Alle prime luci dell'alba le vie del paese erano già animate e il sole benevolo illuminò la bandiera che sventolava allegra e incurante, segno della ribellione e del disprezzo verso il regime.
La risposta del segretario politico non si fece attendere, furono ordinate le perquisizioni e altrettanto numerosi furono gli arresti: gli antifascisti più in vista furono rastrellati e portati in caserma e come sempre furono botte da orbi. Il vessillo rosso fu rabbiosamente strappato.
Ci vollero altri otto anni perché la Festa dei Lavoratori potesse tornare al suo giorno naturale ed essere celebrata in piena libertà da tutti i lavoratori.
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